Dalla pubblicazione della terza edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-III, 1980), quando si parla di schizofrenia in psichiatria si fa riferimento a una sindrome caratterizzata in base a una serie di fattori: criteri di carattere sintoma-tologico, criteri di carattere funzionale in ambito sociale e lavorativo, criteri di carattere cronologico, riguardanti la durata del disturbo, e infine criteri di esclusione. Nel tentativo di unificare i linguaggi della psichiatria contemporanea, il DSM ha dato una definizione di schizofrenia che regna incontrastata nella psichiatria di tutto il mondo. Il problema è che questo strumento di carattere diagnostico e statistico estende troppo spesso la sua influenza al di là della diagnosi e della statistica divenendo il principale strumento di conoscenza e di avvicinamento concettuale alla schizofrenia per gli operatori della salute mentale in formazione. In questo modo le conoscenze di carattere psicopatologico che hanno preceduto storicamente il DSM-III ma che ne sono parte costitutiva, anche se invisibile, rischiano di andare perdute. Infatti dietro i criteri descrittivi, asettici e ateoretici del DSM si nasconde il patrimonio complesso di conoscenze sviluppato dalla psicopatologia del '900.
Anche nei criteri utilizzati per la diagnosi di schizofrenia del DSM-III e successivi è possibile rintracciare molti dei filoni concettuali e interpretativi che fanno parte della storia della psicopatologia della schizofrenia. Nella voce schizofrenia nel DSM-III troviamo infatti una stratificazione di conoscenze, che risale fino alla primitiva nozione kraepeliniana di demenza precoce, e che tagliano in maniera trasversale il complesso, eterogeneo e anche contraddittorio ambito della schizofrenia, delineandone sinteticamente la storia: dal paradigma demenziale, a quello della dissociazione-autismo, dei sintomi di primo rango, dei sintomi negativi, della vulnerabilità, psicodinamico, cognitivo e antipsichiatrico.
Il «paradigma demenziale» fa riferimento all'idea che l'elemento unificatore delle molteplici forme cliniche della demenza precoce (come E. Kraepelin chiamava quella che poi sarebbe stata nominata da E. Bleuler schizofrenia) fosse costituito da un inesorabile decorso verso un indementimento sovrapponibile a quello delle demenze organiche. Un analogo assunto ritroviamo nella ricerca delle determinanti neurobiologiche della schizofrenia identificate in alterazioni neuromorfologiche di alcune strutture cerebrali come l'allargamento dei ventricoli, l'atrofia sottocorticale, le alterazioni del corpo calloso, ecc.: veri e propri (ipotetici) marker di malattia della schizofrenia. In realtà tale ricerca non ha portato per il momento a risultati consistenti. I dati ricavati dagli studi di neuroimaging, ad esempio, non sono marker di malattia poiché queste alterazioni non riguardano mai la maggioranza dei pazienti. Rispetto alle centinaia di anomalie biologiche che nel corso degli ultimi decenni sono state attribuite ai pazienti schizofrenici oggi esiste una sola inconfutabile certezza: il numero di pazienti con diagnosi di schizofrenia in cui l'anomalia non è presente è maggiore di quello in cui è documentabile (Maj, 1998). Il paradigma demenziale si affaccia anche all'interno della dicotomia, proposta a partire dagli anni '80 (Crow, 1985 e Andreasen, 1985), tra una sindrome schizofrenica caratterizzata dai cosiddetti sintomi positivi (deliri e allucinazioni) e una sindrome caratterizzata da sintomi negativi (appiattimento affettivo, povertà dell'eloquio, anedonia, progressivo isolamento con grave compromissione della sfera relazionale). Venne così avanzata l'ipotesi di due differenti forme di schizofrenia: una forma di «schizofrenia di tipo I», caratterizzata da sintomi prevalentemente positivi, in assenza di disturbi cognitivi e dell'affettività, a prognosi relativamente buona, reversibile, probabilmente legata a un'alterazione funzionale del sistema dopa-minergico, con una buona risposta ai trattamenti terapeutici, e una forma di «schizofrenia di tipo II», caratterizzata da sintomi negativi, con disorganizzazione cognitiva, appiattimento affettivo, deterioramento comportamentale, a prognosi infausta, decorso ingravescente, deteriorante e tendenzialmente irreversibile, correlata alla presenza di alterazioni neuromorfologiche di carattere strutturale e resistente alle terapie. Si riaffaccia così lo spettro della demenza precoce e la prospettiva di un decorso inesorabile verso un esito infausto. Le ricerche di carattere genetico hanno sottolineato l'importanza di una componente genetica nell'induzione di una vulnerabilità alla schizofrenia, che però per manifestarsi come disturbo clinico necessita del concorso di una serie di fattori (di carattere anche personologico e ambientale) che possono colpire il soggetto nel corso del suo sviluppo e manifestarsi in età più avanzata (ipotesi neuroevolutiva della schizofrenia: Weinberger, 1987).
Il «paradigma della dissociazione-autismo» vede al centro della psicopatologia della schizofrenia l'idea che esista un disturbo primario, prossimo all'ipotetico substrato biologico della malattia ancora in gran parte sconosciuto, a partire dal quale prende l'avvio una catena di risposte adattative da parte dello psichismo che porta alla manifestazione fenomenologica del quadro clinico. Ciò che si osserva, nella clinica, sarebbe in questo caso l'esito di un processo di confronto e di compromesso tra il disturbo, biologico e le modalità reattive attivate nel confronto con il disturbo. Il delirio primario, per K. Schneider un fenomeno centrale nella psicopatologia della schizofrenia, sarebbe qui da considerarsi come sovrastruttura secondaria: modalità di compenso che il soggetto mette in atto in senso autoterapeutico. Il concetto di autismo rappresenterebbe invece il cuore della psicopatologia schizofrenica. Nato dalle osservazioni di Bleuler (1911) e influenzato dalla nozione di autoerotismo di S. Freud, l'autismo è una perdita del rapporto con il mondo esterno e la predominanza della vita interiore. Gli schizofrenici limitano al massimo i contatti con il mondo, si rifugiano in un mondo a sé, a contatto con gli appagamenti fantastici dei loro desideri o con la sofferenza della persecuzione che avvertono provenire dal mondo esterno. Dopo Bleuler, E. Minkowski (1953) ha precisato il concetto di autismo, confuso - in Bleuler - dalla sovrapposizione tra esperienze allucinatorio-deliranti e impoverimento o perdita del contatto con il reale. Tuttavia il concetto di autismo è andato incontro a uno strano destino: dibattuto e sviluppato nell'ambito della psicopatologia continentale grazie ai contributi tra gli altri di L. Binswanger e W. Blankenburg, è quasi scomparso dalla riflessione contemporanea sulla schizofrenia. Non se ne trova traccia, ad esempio, nel sistema nosografico del DSM. È stato invece traslato nell'ambito della psicopatologia infantile da quando L. Kanner nel 1942 lo ha usato per descrivere l'autismo infantile precoce. Proprio il fatto che l'autismo non è riducibile a sintomo oggettivabile ne ha decretato l'esclusione dall'attuale nosografia. L'autismo resta tuttavia un costrutto centrale nella psicopatologia della schizofrenia proprio perché coglie un elemento di carattere soggettivo tipico del rapporto con il paziente schizofrenico: una sensazione di estraneità e distanza già indicata da H. C. Rümke con il nome di «sentimento precoce di schizofrenia», che il clinico avverte nel contatto con il paziente schizofrenico e che probabilmente ha a che fare con una sorta di rigidità affettiva e di mancanza di scambio affettivo. L'attuale interesse per i sintomi negativi della schizofrenia dipende allora forse dal fatto che rappresentano il tentativo di dare consistenza oggettiva, attraverso il rilievo di una serie di comportamenti e atteggiamenti osservabili, a una nozione per sua natura vaga e atmosferica (ma non per questo meno essenziale) come quella di autismo. Il «paradigma dei sintomi di primo rango» si incentra invece sulla psicopatologia clinica della schizofrenia sviluppata da Schneider (1966) e dalla scuola di Heidelberg. Alla fine degli anni '40 Schneider elencò una serie di «sintomi» che considerava altamente specifici della sindrome schizofrenica, spinto dall'esigenza di basare la diagnosi sul riscontro di specifici sintomi. In realtà, i sintomi di cui parla Schneider non possono essere considerati tali nel senso medico del termine; sono piuttosto descrizioni di esperienze soggettive caratteristiche. Dietro l'impostazione di Schneider non era insomma rintracciabile un modello della patogenesi della schizofrenia, come nel caso di Bleuler, ma solo un'indicazione pragmatica, basata sulla sua esperienza clinica. Tra i sintomi di primo rango Schneider annoverava la percezione delirante, pietra angolare del vero delirio, particolari esperienze di carattere allucinatorio uditivo e tutta quella serie di esperienze nelle quali il soggetto avverte che i confini della sua mente, del suo corpo, dei suoi affetti o della sua volontà sono violati e che una qualche potenza lo influenza dall'esterno riducendolo a mero oggetto passivo (disturbi dei confini dell'Io). Tali esperienze ancora oggi occupano, nella nosografia del DSM-IV (t994), un posto di particolare rilevanza, nell'ambito dei cosiddetti «deliri bizzarri», sotto cui vengono sussunti i disturbi dei confini dell'Io descritti da Schneider, a cui viene attribuito un alto valore diagnostico. Infatti, sulla base della loro sola presenza viene ritenuto soddisfatto il criterio sintomatologico per la diagnosi di schizofrenia.
Nel «paradigma dei sintomi negativi» il funzionamento della mente schizofrenica viene visto più in base all'assenza di ciò che dovrebbe caratterizzare il funzionamento normale della mente che non in base alla presenza di sintomi patologici. I sintomi negativi, descritti in termini operazionali come mancanza o perdita delle funzioni normali o come sintomi anomali per la loro assenza, sono da considerarsi come comportamenti assenti che caratterizzerebbero il funzionamento mentale del soggetto schizofrenico (ad esempio: «immutabilità dell'espressione facciale», «diminuzione dei movimenti spontanei», «scarso contatto visivo», «mancanza di partecipazione affettiva» intesa come «incapacità di sorridere quando l'occasione lo suggerisce»). In questa condizione caratterizzata dalla presenza di non-sintomi, il deterioramento postulato da Kraepelin come smantellamento progressivo e globale delle facoltà mentali di cui i sintomi sarebbero la diretta espressione ha raggiunto il suo massimo sviluppo: in questa concezione della schizofrenia domina infatti l'idea di una mente vuota. Ai sintomi negativi corrisponderebbe il vuoto, l'assenza: il deficit puro, come insensata e astorica ricaduta di un'alterazione biologica cerebrale. Il «paradigma della vulnerabilità» prende le mosse dagli studi di J. Zubin (Zubin e Spring, 1977) che a partire dalla fine degli anni '70 lo propose come una sorta di me-taparadigma, nell'ambito del quale avrebbero potuto trovare collocazione tutti gli altri paradigmi. L'obiettivo era di individuare le condizioni di vulnerabilità alla schizofrenia. In una versione più radicale, ciò voleva dire individuare i veri e propri marker biologici di vulnerabilità; in una versione più attenta allo studio dell'esperienza soggettiva, si trattava di individuare specifiche caratteristiche personologiche o di ricerca su segni subclinici che potessero configurarsi come indicatori di vulnerabilità. Il punto di partenza era costituito dall'osservazione sistematica dell'andamento nel tempo della schizofrenia, grazie alla quale fu possibile dimostrare che essa è più benigna negli esiti di quanto non si pensasse. Un fattore discriminante nell’ orientare la prognosi in senso positivo, o viceversa negativo, era stato individuato nell'assetto di personalità premorboso. Un ulteriore fattore di buona prognosi era rappresentato da un esordio acuto della sintomatologia. Il destino dell'involuzione demenziale e della cronicità veniva così radicalmente invalidato. In luogo di un decorso inesorabilmente cronico la schizofrenia poteva essere vista come una patologia ad andamento fasico. Lo schizofrenico non doveva più essere considerato come una persona malata, magari con periodi intercorrenti liberi da sintomi, bensì come una persona soggetta a episodi intermittenti di malattia. Lo scatenamento della patologia veniva inoltre visto come il frutto di un gioco complesso tra fattori stressanti-scatenanti e variabili moderatrici e proteggenti. In sostanza, asseriva Zubin, l'unica caratteristica cronica della schizofrenia è la vulnerabilità alla schizofrenia. L. Ciompi aveva contribuito a dimostrare l'amplissima varietà dei possibili decorsi a lungo termine della schizofrenia, arrivando a sostenere la tesi che i decorsi della schizofrenia sono tanto variabili quanto quelli della vita in genere. La scuola di Bonn, erede degli studi della psicopatologia fenomenologica continentale, ha messo al centro dell'attenzione le esperienze soggettive del paziente schizofrenico, con l'intento di individuare una serie di esperienze soggettive disturbanti (che di per se stesse non sono sintomi di nessuna malattia) ma che possono invece essere rivelatrici del grado di suscettibilità alla schizofrenia. I «sintomi base» sono esperienze soggettive disturbanti, vicine al supposto substrato biologico della sindrome schizofrenica: si tratta di esperienze elementari, aspecifiche considerate - nell'ambito di un modello patogenetico della schizofrenia di derivazione bleuleriana - come fenomeni di transizione dal piano neurobiologico a quello psicopatologico. Queste microesperienze sono autopercepite come disturbanti a livello della percezione, del pensiero, delle azioni e delle sensazioni corporee. Nel loro insieme causano l'irritante sensazione diffusa di un pensiero, di un linguaggio, di un piano di azione che sfugge al controllo e che ha bisogno di essere continuamente «riacciuffato», tenuto sotto controllo, monitorato, con una sostanziale perdita dell'autenticità, spontaneità e naturalità dell'esperienza. Dal modello dei sintomi base emerge così un mondo soggettivo fatto di microfratture cognitive, di microesperienze di ineffabilità, di piccola, diffusa, sistematica, cronica depersonalizzazione; sono esperienze che nel complesso danno la sensazione di un mondo continuamente instabile, vacillante, sfuggente, poco solido, senza fondamenta, di un mondo fuori centro, deviante dalla sua normale, consueta apparenza che deve essere continuamente e attivamente ricentrato, nel quale il soggetto deve lavorare alla costituzione di sé come soggetto dell'esperienza e del mondo come oggetto della sua esperienza.
La psicoanalisi, nonostante il pessimismo di Freud nei confronti delle psicosi, ha con il tempo esteso il suo interesse clinico e terapeutico al campo delle patologie più gravi, generando molte idee sul funzionamento mentale schizofrenico, secondo almeno quattro idee guida. In primo luogo l'idea del disinvestimento libidico, il ritiro dalla realtà che Freud (1910) mette a fuoco e documenta nel celebre caso del presidente Schreber, esplicitando il carattere restitutivo e autoterapeutico del delirio come modo di reinvestire di senso la realtà. In secondo luogo la crisi del senso dell'Io, vale a dire di ciò che dà stabilità, unità, coerenza al soggetto. Se i confini dell'Io vanno considerati come una sorta di organo di senso deputato a distinguere ciò che è reale da ciò che è irreale (Federn, 1952), un insufficiente investimento di questi confini compromette inevitabilmente la possibilità di individuare un limite rispetto alla realtà. Un'ipotetica debolezza strutturale dell'Io impedirebbe al soggetto di operare una chiara delimitazione di sé dalla realtà esterna, esponendolo alla sensazione di essere assediato da stimoli impadroneggiabili. In terzo luogo la scissione dell'Io: la psicosi, in continuità con la nevrosi, sarebbe caratterizzata da una frattura profonda dell'Io, tale da alterare gravemente la tenuta dell'Io e da indurre una grave distorsione del senso di realtà. Lo psicotico sarebbe così in contatto con una realtà instabile, frammentaria, confusa e spesso indecifrabile. In quarto luogo l'idea sviluppata da W. Bion (1956) della psicosi come attacco al pensiero, come profonda alterazione del pensiero conseguente all'incapacità di tollerare esperienze di frustrazione e come il prodotto di un attacco e della distruzione della stessa capacità di pensare e di porsi in rapporto con la realtà. Il pensiero psicoanalitico sulle psicosi si è poi variamente ramificato: da un lato nell'impostazione interpersonale inaugurata da H. Sullivan e da F. Fromm-Reichmann negli Stati Uniti, dove si è tradotta nel tentativo di trattamento residenziale, sistematico e protratto delle psicosi schizofreniche condotto con strumenti di carattere psicoterapeutico nel corso della pluriennale esperienza di Chestnut Lodge. Dall'altro nel pensiero originale di P.-C. Racamier (1980), sistematizzato in seguito da M. Sassolas, coniugandosi con una pratica clinica di carattere istituzionale. D'altro lato ancora nelle esperienze pionieristiche di trattamento psicoanalitico della scuola kleiniana (con, tra gli altri, H. Rosenfeld, H. Segai, P. Heimann, D. Meltzer) o della scuola lacaniana. Il «paradigma della paleologica» fa riferimento invece a una tradizione di ricerca che risale alla teoria della degenerazione elaborata da B.-A. Morel nell'800 e successivamente rielaborata da E. Tanzi ed E. Lugaro, che nei primi anni del '900 avanzarono un'interpretazione della schizofrenia incentrata sul concetto di atavismo. Il funzionamento della mente schizofrenica, considerata una sorta di anacronismo vivente, veniva qui ricondotto a una regressione lungo la scala ontogenetica e filogenetica, col conseguente riemergere di modalità di funzionamento arcaiche. S. Arieti (1955) ha formulato l'ipotesi della «regressione teleologica progressiva» secondo cui il soggetto, sotto la pressione di un'ansia insopportabile, regredisce a livelli di funzionamento preesistenti, dominati da una modalità di pensiero paleologica. Di qui il reperimento di analogie tra pensiero schizofrenico, pensiero magico, pensiero primitivo e pensiero infantile. Nell'ambito dei «paradigmi cognitivi» della schizofrenia si colloca una serie di ricerche e di studi vicini all'area della neurofisiopatologia e della neuropsicologia, che indagano specifiche ipotesi come quelle della ipofrontalità, del difetto del filtro cognitivo, di un'alterazione nell'elaborazione dell'informazione o di un'asimmetria funzionale tra gli emisferi cerebrali. Ne fanno parte, ad esempio, le indagini sul difetto nel funzionamento della memoria operativa in soggetti schizofrenici. In ambito neuropsicologico C. Frith (1992), a partire dallo studio di una specifica sindrome centrata su esperienze di influenzamento, controllo e passività, ha elaborato un modello del funzionamento mentale nella schizofrenia centrato su un difetto della metarappre-sentazione sia a livello dello sviluppo di una teoria della mente, sia a livello dei processi di self-monitoring: tutto ciò rischia di compromettere la capacità di esplorare lo stato mentale proprio e altrui e, più in generale, le capacità di «lettura della mente», vale a dire quella capacità che ci consente di attribuire agli altri e a noi stessi pensieri, credenze, stati d'animo, intenzioni. In maggiore prossimità con un'impostazione psicopatologica di ispirazione storico-fenomenologica, si colloca invece il modello elaborato da L. Sass (1992) sul ruolo della iperriflessività nello scatenamento delle psicosi schizofreniche. Il nucleo generatore dei fenomeni schizofrenici sarebbe costituito dalle anomalie nell'esperienza del Sé: quel senso ineffabile di un imminente ma imprecisato cambiamento di Sé e del mondo, quelle preoccupazioni di carattere metafisico-magico-filosofico che così spesso si manifestano nelle fasi iniziali delle psicosi schizo-I reniche. Alla base di tutto ciò si collocherebbe un senso di instabilità del Sé e dei suoi fondamenti che si riflette in una percezione di instabilità, estraneità, non familiarità del inondo. Questo disturbo della ipseità, cioè dell'esperienza di appartenenza a se stessi dei propri atti psichici, condurrebbe a una situazione nella quale è necessario tentare di recuperare riflessivamente quella naturalità dell'esperienza che in queste circostanze è venuta a mancare. L'iperriflessività intesa come una sorta di iperconsapevolezza di sé, del proprio corpo, delle proprie funzioni, costituirebbe il tentativo di recuperare «razionalmente» quella naturalità dell'esperienza che è andata perduta o, peggio, che non si è mai costituita. Ma proprio questo meccanismo di adattamento costituirebbe a sua volta la causa di un'ulteriore accentuazione del carattere di estraneità dell'esperienza: quanto più la propria esperienza «naturale» viene fatta attivamente oggetto di attenzione, tanto più essa diventa estranea e irreale, finendo per condurre l'individuo al solipsismo.
Il «paradigma antipsichiatrico» fa riferimento a un processo di critica radicale della psichiatria istituzionale. Non sono mancate posizioni radicali e provocatorie, come quella di T. Szàsz che ha negato il carattere di malattia della schizofrenia sostenendo la tesi che le malattie mentali (e la schizofrenia in particolare) sarebbero soltanto strumenti di controllo sociale. Il movimento di critica antistituzionale ha portato a una profonda revisione nei modelli di assistenza psichiatrica e, ad esempio, in Italia alla promulgazione della legge 180. Il movimento antipsichiatrico ha spostato l'attenzione dal paziente al contesto nel quale il disturbo si realizza, arrivando a ridefinire il disturbo come una forma di reazione normale a una situazione complessiva profondamente anormale e patologica. L'analisi si è così spostata sulla «patologia» del contesto. Prima sul contesto familiare, di cui viene sottolineato il ruolo causale nello scatenamento di una forma patologica nel membro più debole, il paziente designato che farebbe da portavoce della sofferenza complessiva del gruppo. In seguito l'analisi si è allargata al contesto sociale, di cui è stata radicalmente sottolineata l'anormalità, l'alienazione globale. Da questo punto di vista le posizioni di D. Cooper e di R. Laing riprendono e amplificano alcune idee sviluppate da due antropologi, G. Bateson e J. Weakland, un teorico della comunicazione, J. Haley, e due psichiatri, D. Jackson e W. Fry, che, alla metà degli anni '50, avevano pubblicato una serie di lavori nei quali avevano proposto una nuova teoria della schizofrenia basata sul concetto di doppio legame (Bateson et al., 1956). Dall'applicazione radicale di questa nozione Laing e Cooper giunsero a mitizzare la schizofrenia come forma estrema e rivoluzionaria di salute mentale, come un vero e proprio viaggio liberatorio che tenta di trascendere la follia che si annida nella società capitalistica occidentale. L'attuale concetto di schizofrenia deriva da un assemblaggio storico-clinico di idee e nozioni che provengono da modelli anche molto diversi e in contrasto tra loro. Il panorama che ne risulta è non solo eterogeneo ma anche incoerente. Tanto che non è mancato chi si è interrogato sull'opportunità di mantenere in vita un simile costrutto o anche chi ne ha radicalmente proposto l'inesistenza e l'abolizione. Si ha quindi a che fare (e si lavora nella clinica) con modelli che rimandano a idee differenti e qualche volta anche opposte. In questo senso collocare questi modelli nel panorama dal quale hanno avuto origine e tessere le fila della loro storia non rappresenta soltanto un esercizio di carattere epistemologico o storiografico ma serve a delineare anche lo statuto attuale della schizofrenia, nel quale si giocano ancora oggi con tutta la loro forza linee di tendenza, chiavi di lettura, idee e modelli che hanno radici lontane. Negli stessi criteri sintomatologico, funzionale e cronologico proposti dal DSM-IV per la diagnosi di schizofrenia si riaffacciano il deterioramento cognitivo e sociale che Kraepelin poneva al centro della sua demenza precoce; l'appiattimento affettivo e la dimensione autistica dei sintomi comportamentali negativi che Bleuler collocava tra i sintomi fondamentali della schizofrenia; le allucinazioni e i deliri bizzarri che Schneider elencava tra i sintomi di primo rango. Per fare un solo esempio, un approccio integrato alla schizofrenia che tenga conto della eterogeneità e anche della contraddittorietà dei paradigmi che sottendono il concetto stesso di schizofrenia è quello sviluppato dalla scuola finlandese di Turku con il nome di «trattamento basato sui bisogni» (Alanen, 1997), orientato alla comprensione dei bisogni terapeutici caso-specifici, che nasce dalla constatazione del fatto che sebbene gli aspetti biologici siano innegabili nella ricerca e nel trattamento della schizofrenia, spesso viene loro attribuita una importanza eccessiva a scapito della comprensione di ciò che il paziente e il suo gruppo di appartenenza (familiare, lavorativo) stanno vivendo. Così a un approccio biologico tradizionale Y. Alanen accoppia un trattamento psicoterapeutico individuale e un intervento di carattere sistemico, nella consapevolezza che i differenti approcci terapeutici debbano essere considerati in base ai bisogni del paziente e sempre come possibilità complementari piuttosto che in un rapporto di mutua esclusione,
MARIO ROSSI MONTI